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No-Low

 

“Il vino senza alcol non è vino!” gridavano i più fino a poco tempo fa. Perché d’altronde, come dicevano i sommelier più eruditi “se il grado alcolico è inferiore al 9% non lo puoi nemmeno chiamare vino, per legge eh!”.

Gridavano, tempo imperfetto, quindi passato rispetto ad oggi. Non che ora gli animi si siano placati, sia chiaro. Però dalle urla si è passati a una protesta quantomeno più composta.

Ma quali sono i motivi di questa minima tolleranza in più? Vediamoli!

Per rispetto della cronologia, iniziamo col dire che probabilmente qualcuno dei maggiori detrattori di questa “nuova” moda si è reso conto che tanto recente non è, risalendo già al 2004 la prima risoluzione dell’OIV (Organizzazione Internazionale della Vite e del Vino) relativa alla regolamentazione dei vini a basso contenuto alcolico. Per la cronaca, a tale epoca, la riduzione ammessa era del 2% massimo.

Pochi altri che hanno avuto la fortuna di non vedere le loro certezze stroncate retroattivamente nel 2004, portando avanti le loro battaglie contro questa cosa orribile senza alcol sono poi capitolati nel 2012 quando una nuova risoluzione dell’OIV ha elevato il limite della riduzione di alcol al 20%.

Gli ultimi reduci, convinti che con poco alcol non si possa chiamare vino, hanno dovuto infine alzare le braccia ed arrendersi al Consiglio Europeo che, nel 2021, ha modificato un regolamento comunitario dei prodotti agricoli, includendo i vini a basso contenuto alcolico nella vera e propria definizione di “vino”.

E poi, cos’è successo? Qualcosa di molto semplice e, allo stesso tempo, molto indicativo dei tempi moderni in cui viviamo: una parte di noi ha eretto un muro davanti al progresso, al cambiamento di gusti e consumi, altri hanno aperto la mente e approfondito, studiato, scoperto, valutato.

Il mondo cambia. E con esso cambiano le persone, i loro costumi, le loro abitudini. E cambiano anche i gusti. La storia ci insegna che nel corso dei secoli oppure nel corso di pochi decenni, i gusti e le tendenze sono cambiati spesso, a volte anche in maniera molto evidente.

Pensiamo solamente agli anni ’90 e inizio degli anni 2000 quando la tendenza globale premiava i vini rossi molto strutturati, concentrati da poter essere spremuti, complessi come un libro di chimica molecolare, alcolici al punto da dare alla testa solo leggendo l’etichetta, e strizzati in barrique talmente cariche di aromi che senza la scritta vino sull’etichetta poteva sembrare di bere una torta. Piacevano a tutti eh, alla critica, ai consumatori, ai produttori che seguivano la critica e le richieste dei consumatori.

Ma poi qualcuno ha iniziato a stancarsi e piano piano quello stile ha iniziato a perdere fascino, lasciando il posto a vini più fini, eleganti, meno arroganti e palestrati, più acculturati e attenti al palato. Vi ci ritrovate? Ecco, allora tornate al paragrafo precedente, quello che riassume in una riga tutto questo concetto: i gusti cambiano.

I vini a basso contenuto alcolico (legalmente intesi come superiori allo 0.5% di alcol, ma nella realtà compresi tra 7 e 9 gradi alcolici) non sono altro che il proseguimento di quel trend più generale di vini più delicati e abbordabili dal palato. I vini completamente dealcolizzati (anche qui, legalmente sotto lo 0.5% di alcol) sono forse un mondo un po’ più separato.

Sulle tecniche utilizzate per la riduzione del grado alcolico ci sono ormai tonnellate di materiale da consultare, quindi si può saltare qui.

Vale però la pena provare ad analizzare cosa si possa verosimilmente aspettare di trovare una volta versati questi vini nel bicchiere.

Se le tecnologie attualmente impiegate promettono di mantenere l’intero – o quasi intero – corredo aromatico dei vini in fase di riduzione dell’alcol, nella realtà tale perdita risulta ancora decisa, al punto da snaturare spesso la tipicità dei vitigni utilizzati. Per bilanciare un po’ tale perdita, i vitigni con maggiore carica aromatica sono solitamente preferiti (Sauvignon blanc, Riesling, Muller-Thurgau, tra altri).

L’alcol porta con sé una serie di componenti aromatiche e gustative, contribuendo alla struttura e alla morbidezza grazie ad una pseudo-dolcezza al palato. Riducendo la componente alcolica quindi, il vino tende a manifestare una maggiore sensazione amara e una leggerezza al palato; la soluzione per bilanciare questi rovesci della medaglia è l’aggiunta di zuccheri, con il risultato di un vino con un più o meno elevato residuo zuccherino nettamente percepibile, pur restando nel mondo dei vini secchi. Storicamente il consumatore italiano non è un amante di tali vini, più apprezzati invece in diversi paesi europei ed extra-europei.

La riduzione di alcol nei vini rossi rappresenta poi un altro limite: l’esaltazione del tannino che, se non bilanciata da una componente morbida supplementare, può arrivare al limite del fastidioso.

Se per legge i vini a ridotto contenuto alcolico sono quelli compresi tra 0.5% di alcol in volume e il contenuto minimo stabilito dal disciplinare di produzione del vino in oggetto, nella realtà dei fatti la maggior parte dei vini parzialmente dealcolizzati sembra oggi posizionarsi tra 6% e 8% di alcol come giusto compromesso tra riduzione di alcol e conservazione delle caratteristiche al consumo.

Sembra però esserci anche un’altra spiegazione a questo valore: da un punto di vista puramente psicologico, un grado alcolico inferiore avvicinerebbe il vino più ad una bevanda analcolica che non alla sua categoria originaria di vino stesso, venendo meno così una importante funzione socializzante del vino (e altre bevande alcoliche). A tutto questo aggiungiamo che mediamente il consumatore associa il ridotto contenuto alcolico ad un minor valore e, di conseguenza, non è disposto a pagare un prezzo simile ad un prodotto alcolico “a pieno titolo”.

La tipologia di vini che sembra, al momento, più forte è quella degli spumanti, verosimilmente perché in questi un certo residuo zuccherino è da sempre accettato ed anche apprezzato (si pensi alle versioni extra-dry di molti spumanti metodo Charmat in primis). Gli spumanti possono inoltre far leva sull’anidride carbonica, in grado di aumentare la sensazione di struttura in bocca, bilanciando così la generale maggior leggerezza data dalla sottrazione di alcol. Senza parlare del trend globale che vede le bollicine come la categoria di vini in maggior crescita ormai da alcuni anni a questa parte, con relativo apprezzamento da una platea di consumatori sempre più vasta.

Cosa ci riserverà il futuro? Dati alla mano, il fenomeno No-Lo (No alcohol, Low alcohol) miete sempre più successi a livello globale, con sempre maggiore interesse e catalizzando importanti investimenti da parte dei grandi produttori ai quattro angoli del globo. In Italia si investe, ma la risposta del consumatore appare più tiepida rispetto agli altri paesi.

L’atteggiamento del consumatore merita una discussione specifica, per cui rimandiamo al prossimo articolo!